IL DISCORSO DEI 14 PUNTI DI WOODROW WILSON: UNA LEZIONE DIMENTICATA DALLA STORIA
Nella recente Deliberazione n° 16 del Consiglio Regionale del Veneto, che in data 12 Giugno 2014 ha approvato il progetto di legge n° 342, è fatto richiamo espresso all’Advisory Opinion della International Court of Justice del 22.07.2010 sul caso Kosovo (segnatamente sulla “accordance with International Law of the Unilateral Declaration of Independence in Respect of Kosovo”).
La pronuncia della Corte è molto interessante sotto molteplici aspetti (in merito si consiglia la lettura del testo “Il parere della Corte Internazionale di Giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Un’analisi Critica” a cura di Lorenzo Gradoni ed Enrico Milano, Edizioni Cedam, 2011) poiché riporta d’attualità il tema della c.d. Autodeterminazione dei popoli (in inglese Selfdetermination, in tedesco Selbstimmungrecht der Voelker).
Il concetto non è nuovo al pensiero politico e filosofico, trovandone traccia fin dagli scritti di Aristotele e Tommaso d’Aquino, ma in epoca moderna esso ha avuto un notevole impulso dalla pronuncia del famoso discorso “dei Quattordici punti” del Presidente U.S. Woodrow Wilson, in data 8 Gennaio 1918, che ha anticipato la Conferenza di Pace di Parigi a chiusura della Grande Guerra.
Va precisato che finora, gran parte della dottrina ha esaminato il tema della selfdetermination con riferimento ai diritti di autodeterminazione dei popoli soggetti a potere coloniale od occupante straniero, ma non pare che il principio debba esaurirsi a questo aspetto, notando una reviviscenza del concetto in epoca moderna.
Unica tra le potenze vincitrici, la presidenza U.S. decise di esprimere chiaramente i propri obiettivi e condizioni per la sottoscrizione della pace alla indetta Conferenza di Parigi.
Vale la pena rammentare in sintesi i famosi “Quattrodici Punti” (poi saliti di numero invero):
- l’eliminazione dei patti segreti tra le potenze in favore di una maggiore trasparenza degli accordi;
- la necessità di garantire per il futuro la libera navigazione sui mari;
- l’eliminazione delle barriere economiche tra i Paesi;
- la riduzione degli armamenti ai limiti necessari per soli scopi difensivi;
- la definizione dei contenziosi coloniali con equo rispetto dei diritti delle popolazioni interessate;
- la liberazione da forze militari esterne dei territori russi;
- la liberazione da forze militari esterne del Belgio e restaurazione della sua piena sovranità;
- la restituzione alla Francia dei territori (Alsazia e Lorena) sottratti dalla Prussia nella guerra del 1870;
- il riassetto delle frontiere italiane;
- la divisione in entità autonome e sovrane del Regno di Austria ed Ungheria;
- la liberazione e restaurazione dei Regni di Romania, Serbia e Montenegro, con garanzia di accesso al mare per la Serbia e sviluppo dell’indipendenza piena di parecchi Stati balcanici;
- la divisione dell’Impero Ottomano in più entità statali, con garanzia di piena indipendenza per la Turchia, nel rispetto delle minoranze presenti sul territorio;
- la costituzione di uno stato polacco sovrano ed indipendente;
- la costituzione di una Società delle Nazioni con lo scopo di affrontare e gestire le reciproche dispute in modo pacifico, con garanzia dell’integrità territoriale ed indipendenza politica degli Stati appartenenti, in conformità a principi di decisione condivisa.
Il documento, redatto in base agli studi e suggerimenti di apposita commissione di esperti (The Enquiry) nominata dal Presidente Wilson nel 1917, ebbe grande risalto ed anticipò la Conferenza di Pace di Parigi, avendo grande influenza anche sulla decisione di resa poi presentata dalla Prussia.
In campo alleato, esso non ebbe altrettanto favorevole accoglimento, incontrando l’opposizione del governo francese (Georges Clemenceau) del governo inglese (David Lloyd George) ed italiano (Vittorio Emanuele Orlando).
Quest’ultimo era furente, poiché confidava nelle concessioni previste dal Trattato segreto di Londra del 1915, al punto da abbandonare i lavori della Conferenza di Pace.
Infatti, l’Italia aveva mutato la propria posizione neutrale solo nel 1915 a seguito delle segrete promesse di poter strappare la concessione della sovranità sulla Dalmazia, sulle Isole del Dodecanneso, su Smirne nell’Asia Minore e su altri possedimenti coloniali austriaci.
L’intervento del Presidente Wilson a favore di una maggiore trasparenza degli accordi, con interpello e rispetto delle popolazioni coinvolte, pregiudicò il risultato inseguito dal Governo italiano anche se, in tutta onestà, il risultato fu più che proporzionato all’apporto concreto dato per la vittoria della Grande Guerra.
Molto peggio andò alla Prussia, in quanto la stessa confidava nel rispetto delle posizioni preannunciate da Wilson con il suo Discorso dei Quattordici Punti mentre, purtroppo, il Trattato di Versailles ha ben poco da condividere col medesimo, specialmente per quanto riguarda l’equilibrio e sostenibilità economica del Trattato (si vedano le critiche espresse da J. M. Keynes in merito).
Il Presidente Wilson meritò comunque per i suoi sforzi l’ambito riconoscimento del Premio Nobel per la Pace assegnato nel 1919; caratteristica che accomuna Wilson all’attuale Presidente U.S.A. (si noti che Wilson ed Obama sono gli unici Presidenti U.S.A. a poter vantare un dottorato o Ph.D.)
Non tutti i punti del Discorso di Wilson vennero comunque disattesi.
Particolarmente interessante è la soluzione prospettata dagli accordi di pace per la definizione dei confini austriaci moderni, aspramente contesi dalle potenze confinanti.
A fronte di una attribuzione diretta di alcuni territori all’Italia (sostanzialmente il Tirolo del Sud, incluse le province di Trento e Bolzano, nonché Tarvisio e la Val Canale) ed al Regno dei Serbi-Croati e Sloveni (Unterdrauburg ed alcune valli contigue) si decise di coinvolgere la popolazione della Carinzia del Sud nella decisione sul proprio destino.
Infatti, la Presidenza Wilson aveva incaricato una missione diplomatico militare (guidata da Archibald Cary Coolidge e Sherman Miles) di relazionare le potenze vincitrici sulla particolare situazione afferente il Ducato della Carinzia del Sud.
Il colonnello Miles, resosi conto della singolarità del territorio carinziano, propose di coinvolgere la popolazione nella decisione attraverso l’indizione di un plebiscito referendario.
Il Ducato di Carinzia, abitato dai paleoveneti e carnici fin dall’antichità, aveva mantenuto una sua autonomia per tutta la durata del Sacro Romano Impero, fino a divenire una proprietà degli Asburgo.
La popolazione era prevalentemente di lingua tedesca, ma le zone sud-orientali erano prevalentemente abitate da gente di lingua slava.
Le truppe del Regno dei Serbi-Croati e Sloveni avevano cercato di far valere un diritto di fatto attraverso l’occupazione militare dell’area fino alle città di Klagenfurt e Villaco, scatenando la rivolta armata delle popolazioni tedesche che avevano riconquistato le posizioni a Nord del fiume Drau fino alla città di Ferlach .
Sherman Miles propose di prendere a riferimento come linea di confine i monti che separavano la Drava dalla Slovenia ovvero la linea di displuvio delle Caravanche, ma quest’ultima proposta incontro notevoli resistenze tra le Parti interessate.
Si decise quindi, come descritto in maniera dettagliata nell’accordo di Saint Germain, di separare temporaneamente il territorio in due zone: la B ovvero la città di Klagenfurt e dintorni, posta temporaneamente sotto amministrazione tedesca, e la zona A, posta temporaneamente sotto amministrazione delle truppe Serbo-Croate e Slovene.
La zona A avrebbe dovuto pronunciarsi con un Plebiscito, indetto per la data del 10 Ottobre 1919, sul passaggio al Regno dei Serbi-Croati e Sloveni.
In caso di esito positivo, si sarebbe tenuto analogo Plebiscito anche nella zona B.
Particolare significativo è dato dal fatto che furono chiamati a votare tutti i soggetti residenti al 1 Gennaio 1919, senza distinzione di sesso, purché nativi della zona od ivi residenti almeno a far data dal 1 Gennaio 1912.
L’esito fu tutt’altro che scontato: la popolazione, in prevalenza di lingua slava, della zona A si espresse per il mantenimento dell’unione della Carinzia, rendendo di fatto superflua la consultazione nella zona B.
Di fatto, poiché il 68% della popolazione era di lingua slovena e risultò che il 59,04 % dei votanti si erano espressi per l’unitarietà della Carinzia, si deve dedurre che il 40% della popolazione slovena scelse di restare in Austria.
La cosa non dovette sorprendere il colonnello Miles, il quale aveva già notato come gli abitanti sloveni fossero storicamente inseriti nel Ducato di Carinzia con prevalenti rapporti economici verso le città di Graz e Klagenfurt, avendo poco a che spartire con i connazionali a Sudest del confine.
Inizialmente la decisione non venne accettata dal Regno Serbo-Croato e Sloveno, che cercò di far valere i diritti di forza ed il vantaggio della occupazione militare dei territori, ma poiché pacta sunt servanda, in data 18 Novembre dovettero passare le consegne.
L’esito non fu mai più contestato, neppure durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Un referendum proposto inizialmente per ragioni strettamente nazionalistiche, ebbe pertanto un esito ben più ragionevole: più saggi dei proponenti furono gli elettori che tennero a mantenere inalterati i rapporti storico ed economici correnti, avendo assimilata ed apprezzata la riconosciuta efficienza dell’amministrazione e della cultura asburgica.
Ad onore delle armi, devesi riconoscere che l’occupante militare Serbo-Croato e Sloveno aveva comunque garantito la regolarità e libertà del Plebiscito (altrimenti l’esito sarebbe stato ben diverso) con maggiori garanzie democratiche di quelle, ad esempio, offerte dal Plebiscito Veneto del 1866.
Se la lezione di civiltà e rigetto delle mere pretese nazionalistiche fosse stata assimilata, probabilmente le rivendicazioni razziste che scatenarono la Seconda Guerra Mondiale avrebbero ricevuto ben più tiepida accoglienza.
Il principio di autodeterminazione dei popoli (inizialmente mal definito come nazionalismo) che aveva trovato una prima coerente applicazione proprio con gli accordi di Saint Germain, successivamente fu la base teorica (vedi la Resolution 1514 dell’Assemblea Generale U.N., Declaration on the granting of independence to colonial Countries and Peoples) che portò alla dissoluzione delle potenze coloniali.
Il processo non può dirsi oggi ancora concluso, quantomeno con i referendum anticoloniali, perché ciò che sta accadendo nei Paesi dell’Est o nel caos dell’IRAQ ne è riprova d’indiscutibile attualità, anzi potremmo considerarla naturale conseguenza del tradimento da parte del Trattato di Saint Germain delle proposte avanzate dal Presidente Wilson.
Volessero oggi finalmente far tesoro ed accogliere integralmente in famosi “Quattordici Punti” del Presidente Wilson, sarebbe tutto di guadagnato. Meglio tardi che mai.
Poiché sono convinto che la questione di garantire una sufficiente omogeneità nazionale sia solo uno dei parametri da tenere in considerazione, rimango dell’opinione che la decisione referendaria sia sempre l’azione più idonea, in quanto gli interessati sono pur sempre i soggetti più idonei a garantire adeguata soluzione ad ogni dilemma di governance politica ed economica.
Le decisioni calate dall’alto non funzionano mai, mi basti citare il caso IRAQ (paese nato da pochi tratteggi sulla carta ed ancora sofferente di laceranti divisioni) le cui singolarità non possono semplicisticamente essere ridotte a meri scontri tra correnti religiose.
Perché mi ha colpito l’esito del referendum carinziano? Con invidiabile pragmatismo le popolazioni hanno fatto una scelta non nazionalistica ma rispettosa della vivibilità, dell’economia e storicità dell’area (in pratica, decidendo di tenere unito il Ducato di Carinzia il più possibile, sotto la bandiera più idonea a dare garanzie di equilibrio tra pretese dello Stato centrale e necessità regionali).
Non credo possa negarsi la validità del principio adottato ovvero il rispetto dell’uniformità storica, economica ed ambientale, poiché consente di ravvicinare la gestione politica agli interessi dell’area.
Mi chiedo cosa sarebbe successo se, invece di creare figli e figliastri, si fosse presa fin da subito in considerazione l’idea di garantire, nel nostro dopoguerra, piena autonomia alle Venezie (non solo alla Tridentina e alla Giulia) senza portare all’esasperazione attuale dei rapporti.
Last, but not least, faccio notare una cosa che ritengo interessante: il Discorso dei c.d. Quattordici Punti del Presidente Wilson ispirò profondamente il movimento Samil Undong per la proclamazione dell’indipendenza della Korea, all’epoca occupata dal Giappone, altrimenti definito anche come Movimento del Primo Marzo (1919).
L’occupazione militare giapponese risaliva agli esiti della Guerra del 1905, permanendo una sostanziale disparità di trattamento a sfavore dei cittadini coreani rispetto ai giapponesi.
Le rivendicazioni dei trentatré sottoscrittori della Dichiarazione d’Indipendenza, redatta dallo scrittore Choe Nam-Seon, vertevano sulle seguenti doglianze rese pubbliche a mezzo stampa:
- il Governo giapponese discriminava i dipendenti coreani per trattamento e privilegi;
- nel Governo era lamentata l’assenza di rappresentanti coreani in ruoli di prestigio;
- vi era una evidente disparità di accesso alla educazione superiore;
- in generale, i coreani subivano una disparità di trattamento;
- i funzionari governativi, coreani o giapponesi che fossero, erano arroganti;
- non vi era sufficiente azione per il riconoscimento dei meriti dei coreani dotati di istruzione superiore;
- i procedimenti amministrativi erano troppo complessi e le leggi venivano ripubblicate così sovente che era impossibile per i coreani poterle osservare puntualmente con ovvie negative conseguenze;
- vi era una massa indesiderata dal governo di forza lavoro coreana;
- le tasse erano troppo pesanti ed esagerate, i coreani dovevano pagare sempre di più ricevendo in cambio i medesimi servizi;
- la terra era spesso confiscata dai giapponesi per ragioni particolari;
- gli insegnanti coreani erano ostacolati al fine di disperdere le loro tradizioni e cultura;
- gli sforzi per lo sviluppo dei coreani erano interamente devoluti nell’interesse dei giapponesi e da ciò i coreani medesimi non traevano vantaggio alcuno.
Indubbio che talune delle rivendicazioni esposte sono di grande attualità odierna, utili per definire le condizioni di oggettivo svantaggio che la dottrina ritiene necessarie al fine del riconoscimento di un diritto soggettivo d’autodeterminazione, ciò indipendentemente dal regime vigente.
L’iniziativa, appoggiata largamente dalla popolazione che partecipò attivamente in manifestazioni di piazza, venne soppressa nel sangue dai militari Giapponesi ed ogni tentativo dei fuoriusciti coreani (ossia del Provisional Government of the Repubblic of Korea costituito temporaneamente in Shangai in Aprile 1919) di ottenere attenzione da parte dei partecipanti alla Conferenza di Parigi, fu vano.
Nonostante la fiducia riposta nelle parole del Discorso del Presidente Wilson, la Korea non ebbe riconosciuta adeguata tutela, in quanto il Giappone era uno dei soggetti vincitori seduti al tavolo delle trattative e nessuno voleva esasperare i rapporti tra le potenze presenti.
Questo indubbiamente non giovò a merito per gli U.S. e forse, proprio la coscienza di avere proposto un idea innovativa, salvo poi non onorarla fino in fondo, spingerà gli U.S. ad intervenire con forza in Corea quando l’indipendenza della stessa verrà nuovamente minacciata dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Franco Correzzola, avvocato
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