IL “NUOVO” REDDITOMETRO E GLI INCREMENTI PATRIMONIALI: UN ASPETTO CONTROVERSO
Tra gli indici di capacità contributiva utilizzati nel “nuovo” redditometro hanno grande rilevanza gli incrementi patrimoniali, ossia le spese sostenute per l’acquisto di immobili, beni mobili registrati (autovetture, imbarcazioni ecc.), polizze assicurative, titoli azionari e obbligazionari e così via (per un elenco completo si veda la Tabella A allegata al D.M. 24/12/2012).
Queste spese incrementano il reddito presunto del contribuente ai fini dell’accertamento sintetico, e rilevano interamente nell’anno in cui la spesa è stata sostenuta (a differenza del “vecchio” redditometro, in cui gli incrementi patrimoniali si presumevano sostenuti con redditi conseguiti nell’anno di effettuazione della spesa e nei quattro anni precedenti, in quote costanti).
Sarà però possibile sottrarre dalla spesa sostenuta:
a) i disinvestimenti (cessioni) effettuati nell’anno e nei quattro anni precedenti;
b) gli eventuali mutui o finanziamenti stipulati per finanziare l’acquisto (che avranno rilevanza nella stima del reddito presunto sulla base delle rate effettivamente pagate nel corso dell’anno).
Per esempio, si supponga che un contribuente nel corso del 2013 abbia acquistato un’abitazione pagandola 400.000 euro e che l’acquisto sia stato in parte finanziato tramite:
– cessione della precedente abitazione avvenuta nel 2012 per 150.000 euro;
– accensione di un mutuo di 200.000 euro (a fronte del quale nel 2013 il contribuente ha pagato rate per 4.000 euro).
Il reddito presunto attribuito nel 2013 per l’acquisto dell’abitazione sarà quindi pari a: 400.000 – 200.000 – 150.000 + 4.000 = 54.000 euro.
Naturalmente, in sede di contraddittorio, il contribuente potrà dimostrare la disponibilità di ulteriori fonti di finanziamento dell’investimento legittimamente non dichiarate, quali per esempio redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta (interessi obbligazionari tassati alla fonte a titolo d’imposta), donazioni (si pensi all’immobile o all’autovettura acquistati dal genitore per il figlio), risparmi accumulati negli anni precedenti.
UN ASPETTO CONTROVERSO: L’EFFETTIVO UTILIZZO DELLA DISPONIBILITÀ FINANZIARIA
L’Agenzia delle Entrate, nella Circolare 24/E/2013, ha specificato che in sede di contraddittorio il contribuente dovrà fornire la prova:
1) della formazione della provvista, che potrà essersi realizzata anche in tempi diversi rispetto ai quattro anni precedenti previsti dal D.M. 24 dicembre 2012;
2) dell’utilizzo della provvista per lo specifico investimento effettuato.
Quest’ultimo onere probatorio rischia di essere particolarmente gravoso per il contribuente, che potrebbe non essere in grado di ricostruire tutte le proprie movimentazioni finanziarie, soprattutto se lontane nel tempo.
Tornando all’esempio precedente, il soggetto sottoposto ad accertamento dovrà dimostrare che i 150.000 euro incassati con la vendita dell’abitazione sono stati effettivamente utilizzati per l’acquisto del nuovo immobile e non invece per spese di altro tipo.
A ben vedere però non esiste alcuna norma che imponga al contribuente di provare il legame immediato e diretto tra disponibilità finanziaria e investimento effettuato.
Al contrario anzi, nel D.M. 24 dicembre 2012 gli incrementi patrimoniali sono definiti come “ammontare degli investimenti effettuati nell’anno meno ammontare dei disinvestimenti effettuati nell’anno e dei disinvestimenti netti dei quattro anni precedenti all’acquisto dei beni, risultante da dati disponibili o presenti in Anagrafe tributaria”.
Sembrerebbe quindi che l’Amministrazione Finanziaria debbascomputare automaticamente i disinvestimenti risultanti dalle banche dati, senza poter richiedere al contribuente ulteriori oneri probatori circa l’effettivo utilizzo delle somme disinvestite.
Ci si chiede se tali conclusioni possano essere valide non solo per i disinvestimenti, ma anche per altre fonti di finanziamento eventualmente utilizzate per finanziare l’investimento (redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, donazioni, risparmio di anni precedenti, etc.).
In senso affermativo si esprime la recente sentenza della Cassazione n. 6396/2014, relativa al redditometro ante D.L. n. 78/2010, ma valida anche per il nuovo accertamento sintetico.
La Suprema Corte ha infatti specificato che l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 “non impone affatto la dimostrazione dettagliata dell’impiego delle somme per la produzione degli acquisti o per le spese di incremento, semmai richiedendo al contribuente di vincere la presunzione – semplice o legale che sia – che il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti e gli incrementi. Il che, a ben considerare, significa che nessun’altra prova deve dare la parte contribuente circa l’effettiva destinazione del reddito esente o sottoposto a tassazione separata agli incrementi patrimoniali se non la dimostrazione dell’esistenza di tali redditi.”
Di orientamento parzialmente diverso, invece, sembra essere una sentenza ancor più recente della Suprema Corte, la n. 8995 del 18/04/2014, anch’essa relativa al “vecchio” redditometro.
In questo caso la Cassazione ha affermato che non è sufficiente che il contribuente dimostri l’esistenza di redditi legittimamente non dichiarati, in quanto l’art. 38 comma 6 del D.P.R. n. 600/1973 (ultimo periodo) fa riferimento non solo all’entità dei redditi, ma anche alla durata del loro possesso, e quindi richiede al contribuente “qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), e, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere).”
Per la Suprema Corte peraltro tale prova documentale “non risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la “durata” del possesso dei redditi in esame (quindi non il loro semplice “transito” nella disponibilità del contribuente).”
Questa sentenza però, a differenza della precedente, non sembra essere indicativa nel caso di accertamento effettuato tramite il nuovo redditometro.
La pronuncia della Suprema Corte si basa infatti su una locuzione (“L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”, si vedaart. 38 comma 6 del D.P.R. n. 600/1973 ante D.L. n. 78/2010),cheintroduce un requisito temporale da cui desumere il nesso tra le disponibilità finanziarie legalmente non dichiarate e l’utilizzo di tali provviste per lo specifico investimento effettuato.
Tuttavia, dalla combinata lettura dei nuovi commi 4 e 5 dell’art. 38 (in cui è ora contenuta la disciplina dell’onere della prova contraria del contribuente) si può notare come il legislatore non abbia in alcun modo riprodotto la suddetta locuzione né introdotto altri requisiti temporali, né alcun riferimento in tal senso è rinvenibile nell’art. 4 del D.M. 24 dicembre 2012, anch’esso relativo alla prova contraria del contribuente.
Per concludere, in base alla normativa attualmente in vigore e alle più recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità, l’onere probatorio relativo all’effettivo utilizzo delle disponibilità finanziarie parrebbe ormai definitivamente superato, con la conseguenza che l’unico onere per il contribuente rimarrebbe la prova dell’esistenza di redditi legittimamente non dichiarati.
Ove al contrario, il Fisco eccepisse un diverso utilizzo di tali disponibilità, dovrebbe essere onere dell’Amministrazione Finanziaria dimostrare tale circostanza.
Si ritiene comunque opportuno che il contribuente, prudenzialmente, abbia cura di documentare non solo l’esistenza di disponibilità finanziarie legalmente non dichiarate, ma anche il collegamento temporale tra queste ultime e l’investimento effettuato, così da evitare ogni possibile contestazione in sede di accertamento sintetico.
Per esempio, tornando al caso visto sopra (in cui l’acquisto di un’abitazione è stato in parte finanziato tramite la cessione di un altro immobile, avvenuta nell’anno precedente), sarà opportuno che il contribuente conservi ed esibisca in contraddittorio gli estratti conto bancari in grado di documentare che il possesso dei 150.000 euroincassati con la cessione della precedente abitazione è perdurato fino al momento di effettuazione dell’investimento, escludendo così un utilizzo della provvista per spese diverse.
Alberto Marsotto
Segretario – Soccorso Veneto
ALTRA SORPRESA PER GLI IMPRENDITORI AGRICOLI: CONFERMATI GLI ACCERTAMENTI DA REDDITOMETRO
Sentenza della Corte di Cassazione: spetta al contribuente provare che i redditi frutto dell’attività agricola siano sufficienti a giustificare il proprio tenore di vita.
Il redditometro si applica anche ai produttori agricoli che però possono provare la legittimità della provenienza del denaro attraverso la contabilità IVA. Questo è stato il verdetto emesso dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10747 in data 16 maggio 2014.
La questione è iniziata con un accertamento sintetico (redditometro) emesso nei confronti di un contribuente coltivatore diretto.
Il provvedimento è stato impugnato dinanzi alle varie Commissioni Tributarie sostenendo che l’Ufficio procedente avrebbe dovuto provare l’esistenza di redditi diversi da quello agrario.
Inoltre, il contribuente a sostegno delle sue tesi presentava anche una perizia dalla quale emergevano le potenzialità dei fondi coltivati. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che Regionale ha però respinto i ricorsi presentati.
La Cassazione ha confermato il verdetto dei colleghi di primo e secondo grado affermando che il redditometro è applicabile anche al coltivatore diretto ancorché in presenza di soli redditi agrari.
Infatti, spetta al contribuente provare che i redditi effettivi frutto dell’attività agricola, siano sufficienti a giustificare il proprio tenore di vita.
La sentenza però introduce un interessante principio (pro contribuente) e cioè che una valida prova contraria possono essere i registri IVA accompagnati da un semplice bilancio (conto economico) che non sempre gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate ritenevano idonei alla difesa.
Di seguito si riporta il testo originale ed integrale della succitata sentenza della Corte di Cassazione.
Alberto Marsotto
Segretario – Soccorso Veneto
IL GINEPRAIO DELLE TASSE COMUNALI ITALIANE: IUC, IMU, TARI, TASI
Quattro sigle «pericolose» per le tasche dei contribuenti, che si abbinano e si scindono tra loro, rischiando di far cadere in errore chi vuole essere in regola.
Il problema è proprio capire quale tributo pagare, a quale tipo di immobile si abbina e principalmente quanto pagare. Il tutto considerando gli incrementi di aliquota, calcolati in punti percentuale, che ogni singolo comune potrà aggiungere all’aliquota base stabilita dalla norma di partenza.
Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza riepilogando la situazione.
SIGNIFICATO DELLE SIGLE – La IUC (Imposta Unica Comunale) di fatto non esiste come tributo singolo da pagare, ma é una denominazione che accorpa la IMU (Imposta Municipale Propria, defunta per la prima casa, ma operativa sugli altri immobili), la TARI (Tassa sui Rifiuti) e la TASI (Tassa sui Servizi Indivisibili).
SCADENZE DEI PAGAMENTI – Il versamento della prima rata di questi tributi al momento, resta fissato al 16 giugno 2014, eccetto per tutti quei Comuni che alla data del 23/05/2014 non avranno deliberato le aliquote, per i quali la scadenza è prorogata a settembre 2014.
REQUISITI BASE – Vediamo nello specifico su quali immobili e per quali servizi si pagheranno questi tributi.
IUC: comprende, come si è detto, IMU, TARI e TASI.
– IMU: viene abolita solo per la 1° casa ma resta per gli altri immobili. Si paga sul possesso del bene.
– TARI: avrà le stesse caratteristiche della TARSU prima e TARES poi (Tassa sui rifiuti solidi urbani), quindi sarà dovuta da chi detiene e utilizza l’immobile a qualunque titolo. Le tariffe saranno stabilite dal Comune e si pagherà su tutti gli immobili.
– TASI: praticamente è stata istituita per coprire il mancato gettito ai Comuni dell’IMU per la 1^ casa, ora definitivamente abolita. Ma di fatto ne è una duplicazione poiché, pur differenziandosi nell’aliquota da applicare, verrà utilizzata la stessa base imponibile, anche se la legge consente ai Comuni di deliberare autonomamente degli sconti per i non residenti. Contrariamente alla TARI, però, che viene pagata da chi utilizza l’immobile, la TASI colpisce i proprietari. Ma con la particolarità che, trattandosi di un contributo versato al Comune per i servizi indivisibili (illuminazione e pulizia delle strade, ad esempio), sarà pagata anche dagli inquilini, se l’immobile è affittato, in una percentuale che varierà dal 10% al 30% .
LE ALIQUOTE – Per la IMU le aliquote non hanno subito variazioni rispetto alla norma originaria, mentre per la TARI, come abbiamo detto, saranno i Comuni a stabilire le tariffe da applicare. Pertanto con le due componenti della IUC, rappresentate da IMU e TARI, non dovremmo avere particolari problemi.
E’ la TASI da guardare invece con sospetto. Vediamo perché. La legge di Stabilità indica per questo tributo un’aliquota da applicare che va da un minimo dell’ 1 per mille a un massimo del 2,5 per mille. Stabilisce però anche che la somma delle aliquoteTASI + IMU non potrà superare il 6 per mille per le abitazioni principali e il 10,6 per mille per gli altri immobili. Praticamente le aliquote massime dell’IMU. Ma successivi ritocchi alle aliquote hanno portato ad un aumento, che oscilla dallo 0,1 per mille allo 0,8 per mille. Quindi al momento il Comune potrà deliberareun’aliquota TASIfino a un massimo del 3,3 per mille (2,5 + 0,8 = 3,3 per mille), arrivando dunque al tetto massimo IMU + TASI dell’11,4 per mille (10,6 + 0,8 = 11,4 per mille).
UN CASO PARTICOLARE – Nel caso in cui si possieda un immobile, che nonsia l’abitazione principale, che sia sfitto e si trovi nel Comune in cui si ha laresidenza, bisognerà considerare che su questo, oltre all’IMU come altra abitazione, alla TARI e alla TASI, andrà pagata anche l’Irpef sulla prossima dichiarazione dei redditi, ma per “fortuna” solo al 50% di quanto dovuto.
E in questo caso sì, che le imposte da pagare sulla stessa casa diventano effettivamente quattro!
COMUNE IN CUI ABITI, TASSA CHE TROVI.ECCOLO IL FEDERALISMO FISCALE ITALIANO
Ci si dovrà abituare, un po’ alla volta. Ma prima bisognerà superare la “prova TASI”, parente geneticamente modificato dell’IMU, quella che avevano abolito ma che in realtà è sostanzialmente sopravvissuta sotto nomi e sigle diversi. La TASI, la tassa comunale sui servizi indivisibili, dunque, si paga sulla prima casa come sulle seconde e sugli altri immobili. La pagano i proprietari ma anche gli inquilini. Le aliquote non sono uguali per tutti, sia ben chiaro: le stabiliscono i Comuni.
Altrimenti che fine fa il federalismo fiscale? E tra gli ottomila e passa Municipi c’è chi l’ha già fissata (circa 800, tra i quali 22 capoluoghi di provincia e 9 capoluoghi di Regione) e chi invece no. D’altronde, molti sono i Consigli comunali che saranno rinnovati con il voto di domenica 25/05/2014 (oltre 4.000). Chi ha il coraggio di alzare le tasse (perché di questo si tratta nella maggior parte dei casi) a ridosso delle elezioni? Aliquote diverse ma anche detrazioni diverse: in base alla rendita catastale, al reddito, al numero dei figli a carico ma con tetti variabili per l’età di questi ultimi. C’è chi ha fissato un limite a 25 anni, chi a 26, chi a 18.
Perché? E ancora: è identica la situazione di un figlio disoccupato o occupato? Il caos fiscale è anche questo. Prevedere – come sostiene la Uil – che alla fine ci saranno tante TASI quanti sono i Comuni italiani, cioè 8.092, non è affatto un azzardo. Siamo o no il Paese dei mille campanili? Ma il numero dei Comuni miscelato alle innumerevoli possibilità di combinazione dei fattori (dalle aliquote alle detrazioni legate ai figli o al reddito, per capirsi) finirà per produrre oltre 75 mila soluzioni. Un ginepraio.
La creatività fiscale richiede pazienza. Mettendosi l’anima in pace: perché – sempre la Uil Servizio politiche territoriali – ha calcolato che nel 26 per cento dei Comuni la TASI sarà più cara dell’IMU già pagata nel 2012. Questo è un patrigno federalismo fiscale.
Ora, ad eccezione di Aosta, dove per le case non di lusso l’aliquota è stata fissata al livello base dell’1 per mille (l’aliquota può variare dall’1 al 2,5 per mille più un’eventuale addizionale dello 0,8 per mille vincolato alle detrazioni), e Pordenone (1,25 per mille), tutte le altre città hanno aumentato le aliquote. Torino ha scelto il 3,3 per mille con detrazione fissa di 110 euro per immobili con rendita catastale fino a 700, più 30 euro per ogni figlio minore di 26 anni. Anche Ferrara ha scelto il 3,3 per mille, introducendo detrazioni oltre alla rendita catastale anche per i figli fino a 26 anni. Stessa soluzione a Reggio Emilia la cui detrazione per i figli però si ferma a 25 anni. Diversa la strada imboccata dalla Giunta comunale di Milano: aliquota al 2,5 per mille con detrazione legata alla rendita catastale (fino a 770 euro) e in base al reddito Irpef (fino a 21 mila euro).
Qui si rischia di avere nostalgia dell’IMU. D’altra parte in diversi Comuni (il 26 per cento) tra quelli che hanno stabilito aliquote e detrazioni costerà di più la TASI dell’IMU.
TASI: PROROGA A SETTEMBRE NEI COMUNI IN RITARDO CON LA DELIBERA
Si riporta di seguito il comunicato stampa del Ministero dell’Economia e Finanze n. 128 del 19/05/2014, relativo alla proroga del pagamento 1^ rata TASI:
“Dopo aver incontrato l’Anci, per venire incontro da un lato alle esigenze determinate dal rinnovo dei consigli comunali, e dall’altro all’esigenza di garantire ai contribuenti certezza sugli adempimenti fiscali, il Governo ha deciso che nei Comuni che entro il 23 maggio non avranno deliberato le aliquote la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi è prorogata da giugno a settembre. Per tutti gli altri Comuni la scadenza per il pagamento della prima rata della Tasi resta il 16 giugno.”
Alberto Marsotto
Rag. Commercialista
“NUOVO” REDDITOMETRO: FUNZIONAMENTO ED ACCORGIMENTI DIFENSIVI
I funzionari del Fisco hanno già iniziato il controllo in modo automatico dello stile di vita degli italiani incrociando le spese sostenute con i redditi disponibili. Lo fanno accedendo a ben 128 banche dati che registrano le spese di ognuno e tra le quali, a mero titolo esemplificativo, spese per assicurazioni, mutui, acquisti di case, vacanze, utenze, elettrodomestici, arredamenti, iscrizione a circoli o club sportivi, acquisto di autovetture e/o motocicli etc.
Se le spese superano di oltre il 20% il reddito dichiarato, il contribuente può essere chiamato dal Fisco a rendere conto dei motivi del suo comportamento “anomalo” e, se non è “convincente”, parte l’accertamento fiscale vero e proprio. I controlli sono retroattivi, cioè riguardano le spese sostenute dal 2009 in avanti. Le prime richieste di verifica sono già arrivate a casa dei contribuenti.
I contribuenti che entreranno nel mirino dello strumento di accertamento saranno chiamati a giustificarsi anche prima dell’emanazione dell’atto impositivo nel corso dei vari incontri obbligatori con il Fisco. In caso di incongruenze, infatti, tra i dati in possesso dell’Amministrazione Finanziaria e il reddito dichiarato, il diretto interessato sarà invitato presso l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate per fornire ulteriori dati e notizie utili sulla sua situazione reddituale. Nel caso poi in cui il Fisco le ritenesse insufficienti, il contribuente sarà nuovamente chiamato in contraddittorio per l’accertamento con adesione.
Una volta capito come funziona il redditometro, la domanda è come fare a difendersi dallo stesso, come evitare di ritrovarsi in un ufficio dell’Agenzia delle Entrate a dover rendere conto del proprio tenore di vita:
a) Conservare gli scontrini, le fatture, le ricevute. Ci dovremo trasformare tutti in piccoli archivisti. Ovviamente lo scontrino del caffè potremo anche buttarlo, ma sarà meglio conservare quello dell’acquisto di un televisore, le ricevute delle spese condominiali, la fattura dell’acquisto del divano, il bollo dell’auto, i premi di assicurazione per responsabilità civile, l’iscrizione a club o a circoli. Se avremo comprato una casa o una macchina, sarà importante provare tutte le spese fatte per il mantenimento della casa o dell’auto: così il Fisco potrà capire se siamo noi o è qualcun altro il reale usufruttuario di quel bene.
b) Preferire i pagamenti tracciabili. Evitare di pagare in contanti, soprattutto quando si tratta di spese ingenti. Pagare con carta di credito, bancomat o bonifico bancario, facilita il lavoro del redditometro, rendendo tracciabile chi paga e chi usufruisce di beni e servizi. Se le spese per ristrutturare una casa sono state pagate con un bonifico che parte dal nostro conto corrente, il Fisco avrà la certezza che siamo noi e non altri quelli che stanno godendo del bene-casa.
Se non abbiamo attuato queste semplici misure di prevenzione, oppure se il Redditometro si è insospettito ingiustamente riguardo al nostro tenore di vita, potremo ancora difenderci durante la fase dell’accertamento e del contraddittorio.
Una volta chiamato in contraddittorio, infatti, il contribuente potrà eventualmente contestare il ricorso alla ricostruzione sintetica perché alcuni beni considerati dall’Ufficio procedente, sono di fatto nella disponibilità di terzi, i quali, in tutto o in parte, ne sostengono le relative spese o perché alcuni beni o servizi, in realtà, sono destinati all’attività d’impresa o professionale del contribuente stesso.
Se, invece, l’accertamento sintetico appare utilizzabile, il contribuente potrà dimostrare che il finanziamento della spesa o la capacità contributiva desunta dal redditometro derivano da risparmi di annualità precedenti, redditi esenti (rendite per invalidità permanente o per morte, borse di studio, pensioni di guerra), redditi assoggettati a tassazione alla fonte mediante ritenuta (interessi su conti correnti bancari e postali), o da altri accadimenti, quali donazioni dirette e indirette, estranei alla determinazione del reddito imponibile.
Il contribuente potrà, inoltre, dimostrare che le spese sono state sostenute in conseguenza di smobilizzi (cessioni) patrimoniali o che in realtà sono state sostenute da terzi.
Per farlo, però, dovrà presentare – come precisato dalla giurisprudenza sul vecchio redditometro – una copia degli assegni circolari emessi in favore dei venditori e gli estratti conto intestati a coloro che hanno sostenuto la spesa.
Per gli incrementi patrimoniali, non vi sarà più, dal 2009 in poi, la presunzione di formazione del reddito per quote costanti. Pertanto sarà necessario giustificare che
il bene è stato acquistato grazie a denaro elargito da altri soggetti (familiari, istituti di credito) o mediante risparmi che sono stati accumulati nel corso degli anni. In riferimento a quest’ultimo caso, può essere opportuno accantonare annualmente (o con cadenza minore) somme per l’acquisto futuro per esempio di un immobile e che lo faccia in modo da poter sempre dimostrare la causalità tra risparmio e acquisto effettuato.
Se l’immobile fosse acquistato grazie a denaro proveniente da terzi (per esempio familiari), è consigliabile evidenziarlo in via cautelativa nell’atto notarile di acquisto.
Alberto Marsotto
Rag. Commercialista
Plebiscito.eu
STUDI DI SETTORE: COME DIFENDERSI
Gli Studi di Settore sono uno strumento statistico-induttivo in grado di determinare il ricavo o il compenso che con la massima probabilità può attribuirsi a un contribuente (impresa o professionista) in funzione dei dati contabili ed extracontabili (ubicazione dell’attività, metri quadrati del capannone, etc.) che, unitamente ad alcuni fattori esterni quali la territorialità e la congiuntura economica, ne caratterizzano l’attività produttiva.
Negli ultimi anni tale strumento accertativo è stato oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali e di prassi volti a rendere il risultato statistico ancora più rispondente alla realtà imprenditoriale o professionale esaminata.
LA GIURISPRUDENZA E LA PRASSI PER DIFENDERSI DALL’ACCERTAMENTO DA STUDI DI SETTORE
Vanno da subito evidenziate, in tema di centralità del contraddittorio e di suddivisione dell’onere della prova tra contribuente ed Ufficio impositore, in caso di accertamento da Studi di Settore, le sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, depositate il 18 dicembre 2009 le nn. 26635, 26636, 26637, 26638.
In quella sede i Massimi Giudici si sono espressi circa la necessità da parte dell’Amministrazione Finanziaria di supportare la non congruità derivante dall’applicazione degli Studi di Settore con ulteriori prove riferite specificatamente all’attività (imprenditoriale o professionale) di volta in volta “monitorata”, non essendo sufficienti, allo scopo, elementi solo genericamente riferibili al contribuente. La Suprema Corte ha altresì rilevato la centralità del contraddittorio, che deve ritenersi un elemento essenziale ed imprescindibile del cosiddetto “giusto procedimento”, in grado di essere il mezzo più efficace per consentire di adeguare i dati statistici, elaborati dagli Studi di Settore o Parametri, alla concreta realtà monitorata. In altre parole, l’astrattezza dell’elaborazione derivante dagli strumenti “standardizzati” (quali sono appunto gli Studi di Settore) può essere efficacemente verificata e corretta nel contraddittorio preventivo tra contribuente destinatario dell’Avviso di accertamento e l’Ufficio procedente che lo ha emesso. L’Agenzia delle Entrate, quindi, non può prescindere dal chiamare in contraddittorio il contribuente, pena la nullità dell’eventuale successivo atto accertativo. In caso di mancata presenza del contribuente al contraddittorio, l’Ufficio impositore potrà, quale eccezione alla regola generale, motivare l’accertamento sulla base della sola applicazione dei Parametri o Studi di Settore.
La Suprema Corte si è espressa anche in relazione alla necessaria presenza di congrue motivazioni dell’atto di accertamento. Più in particolare, la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel semplice rilevo dello scostamento dal ricavo puntuale, ma deve essere integrata con le ragioni sollevate dall’Ufficio, in sede di contraddittorio, in risposta alle eventuali contestazioni ed osservazioni sollevate dal contribuente. Tutto ciò è in linea con la citata insufficienza dei dati statistici espressi dagli Studi di Settore, che possono essere validati solo attraverso una contrapposizione con il contribuente, il quale dovrà difendersi illustrando la reale situazione della propria attività.
L’Amministrazione Finanziaria ha avuto modo di recepire le indicazioni fornite dai Massimi Giudici. Infatti con la circolare n. 19 /E del 14 aprile 2010 l’Agenzia delle Entrate accogliendo i rilievi mossi dai Giudici di legittimità non ha mancato di pronunciarsi nel senso di “…riesaminare le controversie pendenti… ed abbandonare la pretesa tributaria in presenza di avvisi di accertamento basati sulle risultanze degli studi di settore, nei casi in cui non sia stata attivata la fase del contraddittorio…”.
Passando ad esaminare la cause giustificative da poter esperire in contraddittorio a difesa di una possibile inapplicabilità dello Studio di Settore, assai frequenti sono i casi di situazioni contingenti “soggettive” attribuibili tanto al soggetto dell’imprenditore o del professionista, quanto alla struttura imprenditoriale o professionale.
Con la sentenza del 28 dicembre 2011, la n. 29185, la Corte di Cassazione si è espressa nel senso di dichiarare la nullità dell’avviso di accertamento basato sullo Studio di Settore nel caso in cui i soci di una società avessero dovuto interrompere temporaneamente l’attività a causa di un periodo di malattia. Riguardo alle possibili giustificazioni da esperire in riferimento alla struttura aziendale spesso si menziona l’assoluta “marginalità economica”. Esempi sono strutture locate in periferia ove l’elemento della territorialità non è in grado di identificare il luogo ove è locata l’attività d’impresa. In tal senso è opportuno menzionare la sentenza della Corte di Cassazione, la n. 3349 del 12 febbraio 2013, che chiarisce l’inapplicabilità dello Studio di Settore in caso di “negozio piccolo ed in periferia”, ed in assenza di collaboratori.
Inoltre, l’articolo 62 sexies, terzo comma del D.L. n. 331/1993 stabilisce che per l’applicabilità degli Studi di Settore deve verificarsi una “grave” incongruenza tra i ricavi ed i compensi dichiarati e quelli desumibili dallo studio.
Sul concetto di gravità hanno avuto modo di esprimersi i Giudici di merito, confermando che la gravità sussisterebbe laddove si realizzasse uno scostamento superiore al 25%.
Va anche ricordato, per completezza d’informazione, l’assoluta applicabilità dello Studio di Settore più evoluto (applicabile retroattivamente) in sostituzione di quello in vigore nel periodo immediatamente precedente, in particolare quando nel periodo considerato l’attività del contribuente è variata, pur nello stesso ambito, e la nuova formulazione risulti più coerente nonché più favorevole al contribuente stesso (Corte di Cass., sent. 11 settembre 2013, n. 20809).
A conclusione del presente lavoro, si vuole focalizzare l’attenzione del lettore sulla centralità della fase del contraddittorio preventivo tra contribuente e Amministrazione Finanziaria, a seguito emissione di Avviso di accertamento da Studio di Settore, alla luce della recentissima sentenza della Corte di Cassazione, datata maggio 2014.
È illegittimo l’accertamento basato sul mero scostamento dei dati dichiarati dal contribuente, rispetto a quelli relativi alla media del settore, senza che l’Amministrazione Finanziaria dia spiegazioni del mancato accoglimento delle giustificazioni portate dal contribuente in sede di contradditorio. Questo è quello che sostiene la Corte di cassazione con la sentenza n. 9712 del 6 maggio 2014. Per gli studi di settore, il contraddittorio, previsto espressamente dall’art. 10, comma 3-bis, L. 8.5.1998, n. 146, rappresenta infatti lo strumento con cui adeguare alla concreta realtà economica del singolo contribuente, il risultato stimato dallo Studio di Settore.
Nella sentenza in questione la Corte di Cassazione ha ritenuto che la CTR (Commissione Tributaria Regionale) della Lombardia si era limitata ad affermare la fondatezza dell’accertamento senza però rilevare l’assenza, nell’atto impositivo, delle ragioni per le quali erano state disattese e rigettate le giustificazioni e le osservazioni difensive del contribuente. Ne conseguiva l’illegittimità dell’atto. Ancora una volta risulta, quindi, da annullare integralmente l’avviso di accertamento, nel quale non si è dato conto delle circostanze addotte dal contribuente nel contraddittorio preventivo.
Si riporta, a tal fine, uno stralcio della sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, la n. 9712 del 06/05/2014:
Le questioni poste con i mezzi, sembra possano definirsi, richiamando, per un verso i principi fissati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 105/2003 ed applicando, quindi, quanto deciso dalle SS.UU. di questa Corte con la Sentenza n. 26635/2009, la quale, nel solco di precedenti pronunce (Cass. n.23602/2008, n. 26459/2008, n. 27648/2008, n. 4148/2009), dando una lettura costituzionalmente orientata del quadro normativo di riferimento, ha avuto modo di precisare che “La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.
In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare,senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente”.(…)
Nel caso, la decisione di appello, che ha ritenuto fondata la pretesa fiscale, fondata sugli studi di settore, senza che l’accertamento risultasse modulato in relazione alle contestazioni ed ai rilievi formulati dalla contribuente in sede di contraddittorio, non sembra in linea con il trascritto principio e, quindi giustifica le formulate censure.
In buona sostanza, l’avviso di accertamento, nei terminiin cui è stato formulato e notificato, non ha tenuto conto dei rilievi e degli elementi addotti dalla contribuente in sede di contraddittorio, omettendo di esternare, come richiesto dal trascritto principio, le “ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente”.
Alberto Marsotto
Rag. Commercialista
Plebiscito.eu